Relazione presenta in occasione della inaugurazione del Centro per la Ricerca, Studio e documentazione delle Soms Siciliana
Palazzo Armao, Santo Stefano di Camastra (ME)
21 luglio 2013
Il ruolo
politico svolto dalle Società Operaie di Mutuo Soccorso nella storia
dell’Italia unita è stato sovente dimenticato quando non del tutto ignorato. La
storiografia ha esplorato la storia delle Società di Mutuo Soccorso come forza
sociale che coagula il nucleo originario del movimento operaio italiano, come
soggetto propulsivo che contribuisce a formare e organizzare il sindacalismo
nella penisola, come istituzione che dal basso colma l’immenso vuoto di una
legislazione sociale nella vecchia Italia liberale[1];
oppure si è soffermata a ricostruire la vita interna dei sodalizi descrivendone
i caratteri, le iniziative e le ragioni sociali nel contesto della più ampia
vita collettiva di una città o regione d’Italia[2].
Le Società Operaie, tuttavia, non rappresentano un fatto esclusivamente
sociale; così come il mutualismo e il cooperativismo da esse sviluppati non si
riducono solamente a forme economiche capaci di coesistere con le istituzioni
del sistema capitalistico. Le Società Operaie furono anche un fatto politico,
nei primi decenni di vita unitaria italiana; il mutualismo e il cooperativismo
si presentarono sulla scena politica del tempo come autentiche idee-forza
alternative al capitalismo e al nascente collettivismo. Recuperare questo
particolare tipo di esperienza politica vissuta dalle Società Operaie, potrebbe
essere utile oggi di fronte al capitalismo che mostra finalmente il
suo vero volto di sistema fondato sull’ingiustizia sociale mascherata di
“sviluppismo” esasperato, competizione selvaggia e senza regole, meritocrazia
dell’avere piuttosto che dell’essere; e di fronte al fallimento storico del
collettivismo che non è riuscito ad affermarsi senza fare ricorso alla barbarie
totalitaria. Archiviata l’utopia comunista della società senza classi e senza
Stato; consolidatosi e affermatosi, sul piano politico e su quello economico,
il liberalismo che ormai come <<uno stesso manto ideologico, ampio e
avvolgente, unifica tutti i partiti, vecchi, rinnovati e nuovi>>[3];
la storia politica delle Società Operaie di Mutuo Soccorso potrebbe ispirare la
ricerca di spazi nuovi nel campo del pensiero e dell’azione di tutti coloro che
non intendono rassegnarsi a subire la corrente del tempo dominante.
La lotta
politica nell’Italia unita
Nel 1860 la
nascita della nazione era stata generata da una collaborazione senza precedenti
tra i democratici e i liberali italiani che <<portarono la massima parte
dell’Italia nelle loro mani, ovvero in quelle di Vittorio Emanuele II>>[4];
il soggetto attivo di questa straordinaria collaborazione politica era stato il
movimento garibaldino. Il garibaldinismo, però, <<mediando il contrasto
fra iniziativa moderata e iniziativa democratica, guerra regia e guerra di
popolo, servirà al movimento liberale per sconfiggere quello democratico che è
insieme a lui in corsa per il potere>>[5].
Nel 1861 la proclamazione del Regno d’Italia sarà solennemente sancita da un
Parlamento dominato da una maggioranza liberale, eletto con il sistema
elettorale censitario imposto dai liberali, al cospetto di un governo
presieduto da Cavour e composto esclusivamente da liberali. La collaborazione
del 1860, dunque, si era trasformata in ostilità totale nel 1861 e Garibaldi e
i democratici furono confinati nel campo degli sconfitti;
<<l’emarginazione dei democratici attuata da Cavour (…) disgustava e alienava
dalle istituzioni la parte più attiva del popolo e della piccola borghesia,
soprattutto nel Mezzogiorno>>[6].
Le conseguenze furono disastrose e destinate a incidere profondamente nella
Storia d’Italia scavando un solco che non sarà più colmato. I liberali, scrive
Carocci, <<nei confronti delle classi popolari, soprattutto dei contadini
e di quelli meridionali in particolare, non esitarono a negare la tutela dei
diritti civili che, sulla carta, lo Stato liberale di diritto garantiva a tutti
ma che nella pratica garantì solo alla borghesia>>[7].
Si delineava
così, nell’incerto e difficile cammino iniziale dell’Italia unita, l’aspro
sentiero di una lotta politica caratterizzata dalla volontà di potenza dei
democratici di riprendere l’iniziativa politica e dall’ostinata resistenza
conservatrice dei liberali per non perdere il potere acquisito.
Lo slancio
vitale dei democratici, seduti all’estrema sinistra del Parlamento di Torino, è
ben rappresentato in un efficace brano dello storico Renato Composto che così
scrive: <<Battuti dalla spregiudicata ed abile politica cavouriana -
quando avevano pensato di essere ormai avviati a cogliere i frutti del loro
sostanziale apporto all’unità nazionale - ed inchiodati a Teano; vincolati
dalla ristrettissima base elettorale che, com’è noto, non toccava nemmeno il 2
% della popolazione, sì da non poter nutrire fondate speranze di provocare uno
spostamento di forze nella rappresentanza nazionale e pur desiderosi di
ottenerlo, i democratici cercarono, pertanto, dopo la morte di Cavour e mentre
i suoi immediati successori stentavano a mantenere sicura l’eredità, di
acquistare nuovo vigore, procurandosi quella base che
nell’estate del 1860 non avevano voluto o saputo cogliere nel moto contadino
siciliano, e di dar vita ad un movimento organico per la diffusione e
l’attuazione delle proprie istanze, sino ad improntarne la vita del
Paese>>[8].
In questa trama, tessuta dai democratici per riprendere l’iniziativa politica
nel Paese, s’inserisce l’azione politica svolta dalle Società Operaie di Mutuo
Soccorso.
La breccia di
Firenze
Il 27
settembre 1861 si aprì in Firenze il IX congresso delle Società Operaie
italiane, il primo dopo l’unità. E’ qui che inizia l’assalto alla politica di
questi organismi ormai attivi e operanti in tutto il territorio nazionale; ed è
in quest’ambiente che si combatte la prima, dura battaglia tra liberali e
democratici. Nate nel 1848 in Piemonte per sopperire all’assenza di servizi e
assistenza ai lavoratori, le Società Operaie diverranno dopo il congresso del
1861 l’embrione del movimento sindacale italiano e il laboratorio dei gruppi
politici che si schiereranno dalla parte del lavoro e dei lavoratori in Italia.
I sodalizi coesisteranno con le nascenti camere del lavoro e con le nuove
organizzazioni sindacali costituendo quella filiera sociale che ben presto
tirerà fuori dalla solitudine i lavoratori italiani; ispireranno la politica
sociale di quelle forze democratiche, repubblicane, anarchiche, socialiste che
costituiranno l’alternativa allo Stato liberale. Saranno la base dei sindacati
e dei partiti dei lavoratori italiani. Questo duplice ruolo è magistralmente
rappresentato in Sicilia dall’esperienza dei Fasci Siciliani dei Lavoratori,
che saranno organismi sindacali e politici al tempo stesso e il cui statuto
sarà forgiato sul materiale statutario e sulla partecipazione attiva delle
Società Operaie dell’Isola.
Il IX
congresso delle Società Operaie segna la svolta storica dei sodalizi: diretti
fino allora dai liberali, essi passeranno sotto il controllo dei democratici.
Concitato, dibattuto, agguerrito; seguito con apprensione dai democratici, con
timore dai liberali, con interesse dalla stampa europea, quel congresso
annunciava l’ingresso del mondo del lavoro italiano nell’agone politico; e si
concludeva con una scissione interna emblematica della natura intransigente
dello scontro frontale sulla questione sociale che si sarebbe ben presto
combattuto in Parlamento e nelle piazze, nelle campagne e nelle fabbriche.
Presieduto da Giuseppe Mazzini e dominato dalla vis oratoria e
polemica del Guerazzi e del Montanelli, il congresso di Firenze contribuì ad
adunare attorno al movimento democratico un’ampia parte di quel proletariato
delle fabbriche e delle campagne che machiavellianamente era stato sfruttato
dai liberali per i plebisciti del 1859 e del 1860 e poi espulso dalle prime
elezioni nazionali per il primo Parlamento dell’Italia unita mentre inutilmente
Cattaneo, Garibaldi e ancora Mazzini proponevano l’elezione di un’Assemblea
Costituente da eleggersi con il suffragio universale[9].
Piuttosto che
ripercorrere le vicende congressuali, con lo svolgimento dei lavori e il fuoco
di fila delle relazioni e delle mozioni contrapposte[10],
si ritiene opportuno evidenziare i termini del conflitto. Nel congresso si
fronteggiarono due tendenze ben definite: da una parte i democratici ben decisi
a dare battaglia per portare il movimento delle Società Operaie sul terreno
della lotta politica; dall’altra i liberali, forti della tradizione che si era
affermata in Piemonte prima dell’unità nazionale, ostinati invece a tenere le
Società Operaie fuori dall’arena politica. Questa contrapposizione produsse una
serie di altre fratture: vinta la prima battaglia, con l’approvazione di una
mozione del Montanelli nella quale era dichiarato che le Società Operaie - pur
non essendo associazioni politiche - potevano intervenire nel dibattito
politico nazionale tutte le volte che lo ritenessero necessario, i democratici
incalzarono i liberali sui temi della richiesta del suffragio universale e
della costituzione di un’organizzazione operaia unitaria nazionale. Anche qui,
i democratici riuscirono a far deliberare che <<L’Assemblea delle Società
Operaie conoscendo non potersi ottenere il sollecito e completo riscatto delle
plebi senza sviluppare ed estendere l’associazione mediante l’unificazione
delle Società e procurare il suffragio universale e l’istruzione fatta
obbligatoria e secolarizzata, delibera di eleggere una commissione incaricata
di avvisare ai modi più convenienti per ottenere l’una e l’altra>>[11].
Nel 1861,
dunque, un congresso di Società Operaie stabiliva per la prima volta che i
sodalizi, che non erano e non sarebbero mai stati partiti politici, potevano e
dovevano tuttavia partecipare attivamente alla vita politica dello Stato. Da
quel momento, le richieste sociali avanzate dai lavoratori nei sodalizi
cominciarono a passare attraverso la breccia politica aperta dai democratici a
Firenze; la questione sociale diventò così questione anche politica. Gli esiti
di quest’atto rivoluzionario si videro nello stesso momento in cui il congresso
cominciò a trattare i temi di carattere sociale: condizioni di vita dei
lavoratori, salari, orario di lavoro, disoccupazione, abitazioni, scioperi,
arbitrato nelle controversie del lavoro. Si trattava di temi che nei precedenti
congressi erano stati sempre elusi quando non respinti pregiudizialmente; ma
adesso, in una lunga mozione, il congresso affrontò la questione sociale e
politica del conflitto tra capitale e lavoro. Osserva in proposito Gastone
Manacorda: << per la prima volta, un congresso operaio faceva proprie due
rivendicazioni fondamentali degli operai: aumento dei salari e riduzione delle
ore di lavoro, insieme congiunte. Per la prima volta, un congresso si schierava
dalla parte degli operai e non considerava queste questioni soltanto come
materia degna di studio, ma affermava la urgente necessità di affrontarle nella
pratica. (…) E se l’aperta lotta di classe era ripudiata, tuttavia la richiesta
abrogazione del divieto di coalizione, passato dalla legge Le Chapellier nei
codici penali dell’800 e che rappresentava una caratteristica limitazione della
libertà degli operai nello Stato borghese, distingueva nettamente, anche su
questo punto, la posizione dei democratici da quella dei liberali>>[12].
La vittoria
democratica a Firenze era stata completa: l’unificazione delle Società Operaie,
il principio della partecipazione politica, la richiesta del suffragio
universale, l’istruzione laica e obbligatoria, l’adozione del mazziniano I
doveri dell’uomo come testo per l’educazione del lavoratore, l’aumento
salariale, la riduzione dell’orario di lavoro, l’elezione di Garibaldi a
presidente dell’Assemblea congressuale, l’omaggio pubblico a Mazzini e infine,
per attrarre i settori più avanzati della Sinistra costituzionale, il saluto al
“Re Galantuomo”; tra democratici e liberali si era aperto <<un abisso che
non si sarebbe più colmato>>[13].
Si trattava di una vittoria significativa, avvalorata dalla decisione dei
liberali di abbandonare il congresso per celebrare un controcongresso ad Asti
che avrebbe condannato i deliberati di Firenze; e mentre tutta la stampa
italiana liberale e reazionaria, dalla cavouriana L’Opinione alla
clericale Armonia, polemizzava con forza contro il congresso di
Firenze, dalla Francia di Napoleone III l’ambasciatore Costantino Nigra (già
collaboratore attivo del Cavour) si affrettava a far sapere che a Parigi
avrebbero visto di buon occhio lo scioglimento delle Società Operaie italiane.
Nigra, naturalmente, non mancava di far notare il proprio personale sostegno al
suggerimento dato dal governo francese[14].
Il contributo
delle Società Operaie
I deliberati
del IX congresso delle Società Operaie diventarono le parole d’ordine
dell’azione politica e sociale dei sodalizi in tutt’Italia e contribuirono ad
allargare la base del movimento democratico italiano. Il suffragio universale,
l’istruzione obbligatoria, l’aumento salariale, la riduzione dell’orario di
lavoro diventarono parte integrante della Società Emancipatrice Italiana
fondata nella primavera del 1862 da garibaldini e mazziniani. La Società
Emancipatrice, nucleo attorno al quale si coagulerà il movimento democratico,
ebbe il sostegno dei sodalizi italiani e specialmente in Sicilia il movimento
delle Società Operaie sosterrà Garibaldi venuto nell’Isola per tentare una
nuova impresa che potesse restituire ai democratici quell’iniziativa politica
fermatasi a Teano. L’impresa fu stavolta fermata in Aspromonte con le fucilate
dell’esercito regolare sui volontari democratici. Ma quelle fucilate non
poterono disperdere il movimento che ormai si era costituito e che agiterà la
storia politica e sociale dell’Italia post-unitaria. Gli esiti del congresso di
Firenze legarono idealmente la lotta politica del movimento operaio italiano
iniziata con Mazzini e Garibaldi, proseguita con Bakunin e poi con il partito
socialista. Come ha ben evidenziato Renato Composto, i principi politici delle
Società Operaie contribuiranno ad animare <<quei fermenti che, nonostante
i suoi limiti programmatici, lo stesso movimento democratico diffuse nella
società italiana, e soprattutto nei ceti popolari, preparando e sollecitando la
maturazione di una più larga e più approfondita coscienza socialista>>[15].
Vale la pena
di soffermarsi brevemente su quei limiti che la storiografia tradizionale ha
indicato nel ripudio del principio marxiano della lotta di classe e
nell’iniziale ripudio dello sciopero come metodo di lotta. A Firenze, i
democratici avevano individuato nel suffragio universale lo strumento
necessario per integrare le masse nella vita dello Stato e affermare la
democrazia politica; e nel confronto diretto tra rappresentanti dei datori di
lavoro e rappresentanti dei lavoratori lo strumento idoneo a costruire la
democrazia economica nel Paese. Insieme al mutualismo e al cooperativismo, si
trattava di soluzioni efficaci per estirpare dallo Stato e dalla società
italiani il cancro capitalista dell’ingiustizia sociale e della tirannia del
denaro evitando spargimenti di sangue. Tuttavia, quando ci si rese conto che la
controparte si rifiutava di accettare il confronto dialettico, non mancò ai
lavoratori il coraggio di scegliere forme conflittuali di lotta; emblematico è
il caso del movimento dei Fasci Siciliani dei Lavoratori che non esitarono a
far valere le loro ragioni con la lotta, con il sangue, con la galera, sfidando
la repressione; ed è noto che i Fasci provenivano direttamente dalle Società
Operaie siciliane. La verità è che la lotta di classe non può essere
considerata come l’avvenimento grandioso che si svolge in un determinato
momento circoscritto nel tempo e nello spazio. La lotta di classe è un evento
che si svolge quotidianamente, ora con la violenza e ora con le armi della non
violenza; e i protagonisti della lotta non sono due classi distinte e distanti
ma due forze contrapposte: il capitale e il lavoro. Nel 1948, con la
Costituzione repubblicana, la lotta di classe portò alla Repubblica fondata sul
lavoro (e non sul capitale), alla sovranità popolare (e non nazionale), alla
partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, al riconoscimento
del mutualismo, del cooperativismo e del risparmio, al Cnel incaricato di
dirimere le controversie economiche e politiche tra capitale e lavoro, al
suffragio universale maschile e femminile. Il lungo cammino politico del movimento
operaio italiano, cominciato a Firenze nel 1861 con le Società Operaie, era
così consacrato a Roma nel 1948 da quell’Assemblea Costituente negata nel 1860.
Battersi oggi per l’applicazione radicale della lettera Costituzionale
significa non disperdere il patrimonio di lotte e conquiste costituito dai
nostri padri in quelle Società Operaie ancora oggi aperte in ogni angolo del
Paese. Forse è arrivato il momento di ricominciare tutto da capo, seguendo
l’eterno ritorno della storia.
Michelangelo
Ingrassia
[1] Si veda, per
esempio, lo studio di G. Manacorda, Il Movimento operaio italiano,
Editori Riuniti, Roma 1971; o anche S. Musso, Il sindacalismo italiano,
Fenice 2000, Milano 1995
[2] Emblematica, in
tal senso, l’opera di D. Palazzo, Le società operaie di mutuo soccorso
studio di un campione: Francavilla Fontana, Lacaita editore, Manduria 1974
[5] M. S. Messana
Virga, La formazione del movimento garibaldino, in G. Tricoli (a
cura di), Studi in memoria di Gaetano Falzone, Ila Palma,
Palermo-Sao Paulo 1993, pp. 289-320
[9] Nell’ottobre del
1860, riuniti a Napoli, Garibaldi Mazzini e Cattaneo avevano inviato una
lettera a Vittorio Emanuele II con la quale chiedevano al sovrano di scegliere
tra Cavour e Garibaldi; il re rispose rinnovando la fiducia a Cavour; così
naufragò il progetto democratico di spostare la monarchia italiana a sinistra
poco prima che fosse proclamata la nascita della nazione unita; in proposito si
veda M. Ingrassia, Carlo Cattaneo e la Sicilia, in C. Paterna (a
cura di), La Sicilia nell’unità d’Italia, Bonanno Editore, Catania
2011
[14] Voci di simpatia
e approvazione vennero invece da alcuni ambienti dell’opinione pubblica
inglese; sul dibattito nazionale e internazionale sollevato dalle vicende
congressuali di Firenze si veda R. Composto, op. cit., pp. 43-47
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